mercoledì 7 novembre 2012

Romeo e Giulietta, capitolo 1

Premessa: l'anno scorso, verso Natale, l'occhio mi cadde su una locandina in cui si pubblicizzava un lavoro teatrale. Era Romeo e Giulietta di Shakespeare. E gli attori di quella rappresentazione erano, diciamo, un po' "passatelli d'età". Non di primo pelo, ecco.
Ora, tutti sappiamo che la tragedia shakesperiana funziona perché la travolgente storia d'amore coinvolge due giovanissimi. È per questo che è travolgente, altrimenti col cavolo... 
Una Giulietta trentenne sarebbe altrettanto passionale? Sarebbe altrettanto coinvolta e coinvolgente? Un Romeo cinquantenne come suonerebbe? Sexy o patetico?
Ma poi m'è scattata una scintilla: e se Romeo e Giulietta fossero davvero "di una certa età"? Sarebbe tutto diverso? La passione ci sarebbe ancora? E i colpi di testa? E le rispettive famiglie come la prenderebbero? Perché dovrebbero opporsi? E perciò...
Ok, non so cosa ne verrà fuori. Leggete e fatemi sapere.

La storia di Giulietta

La Vecchia Zia Giulietta si guardò allo specchio e si trovò relativamente soddisfacente.
Nel senso che per la sua età e per lo stile di vita che conduceva non era malaccio.
Era una “vecchia zitella”. Così l'avrebbero chiamata cinquant'anni fa una come lei.
Lei si guardò di nuovo allo specchio. E si trovò “ancora piacente”. Così l'avrebbero chiamata cinquant'anni fa una come lei.
“Oh, insomma”, si disse Giulietta, “Poche storie. Hai cinquantasei anni e sei da sola, ERGO sei una vecchia zitella. Non una single. Single lo puoi dire a trent'anni, non adesso.”
La Vecchia Zia Giulietta aveva una storia complicata, e ne era consapevole.
La Vecchia Zia Giulietta aveva cinquantasei anni, vero. Portati bene, per carità. Ma se vedeva le sue coetanee alla TV mica era più convinta che se li era portati bene.
La Vecchia Zia Giulietta era zitella, pure.
Il che non voleva dire che non avesse una famiglia.
Eh, magari!
I Capuleti erano una famiglia numerosissima. Fra zii, cugini e nipoti ce n'erano da perderci la testa.
L'unica che li conoscesse tutti era, appunto, la Vecchia Zia Giulietta.
Era stata la nipotina più giovane, la quattordicenne Jessica, a cominciare a chiamarla Vecchia Zia Giulietta dieci anni prima, e da allora il resto della famiglia aveva seguito il suo esempio.
La Vecchia Zia Giulietta era zitella non solo perché non era sposata, che tanto oggi non usa più, ma anche perché non era neppure fidanzata e non lo era mai stata. Mai, mai in vita sua.
O meglio, quando aveva tredici anni aveva avuto una specie di “fidanzatino”. Tutti dicevano che lo era, anche se lei lo detestava a morte.
Tebaldo, così si chiamava il fidanzatino, aveva un anno più di lei ed era figlio degli zii Paride e Giuditta. Che poi gli zii Paride e Giuditta non erano veramente suoi zii, erano solo amici di mamma e papà, ma amici così stretti che lei e i suoi fratelli li chiamavano zii lo stesso.
Tebaldo le era sempre stato antipatico. Quando erano piccoli lui le faceva i dispetti, le tirava le trecce, le scarabocchiava i libri e le diceva che da grandi si sarebbero sposati, che lei lo volesse oppure no, perché tanto lei era una femmina e la sua opinione non contava un cavolo. E poi le rompeva le bambole, le graffiava i dischi e faceva anche un'altra cosa orrenda: ammazzava lucertole e passerotti davanti a lei, sapendo che questo l'avrebbe fatta piangere e soffrire.
E poi l'estate che Giulietta aveva tredici anni Tebaldo e gli zii Paride e Giuditta erano stati invitati per due settimane nella casa al mare da mamma e papà, ed erano state le due settimane più brutte della vita di Giulietta, perché Tebaldo era cresciuto e i suoi dispetti, se così si potevano chiamare, si erano evoluti con lui.
Lui l'anno prima aveva cominciato a fare sport, ed era alto e robusto per la sua età. Mentre Giulietta era piccola e magrolina come la mamma, e quando lui faceva il prepotente lei non riusciva a difendersi.
Giulietta non aveva il coraggio di chiedere aiuto ai fratelli o ai grandi, perché le cose che Tebaldo le faceva erano troppo, troppo imbarazzanti, e poi non le avrebbe creduto nessuno. Così pensava lei.
Lo pensava, e ne era certa, perché quando c'erano gli altri Tebaldo con lei era sempre estremamente dolce e gentile, un perfetto “cavalier servente”, tanto che i grandi ridacchiavano e li chiamavano “fidanzatini”.
Solo Giulietta sapeva in che razza di mostro sapesse trasformarsi il principino quando rimaneva da solo con lei.
Era tremendo.
L'acchiappava per un braccio e la trascinava in disparte in qualche angolo isolato del giardino, o in cantina, o in bagno, una volta perfino nella cabina dello stabilimento al mare. Tutti posti dove poteva arrivare qualcuno da un momento all'altro. Poi la bloccava col peso del suo corpo contro la parete, in modo che lei non potesse ribellarsi, le sollevava la gonna e le ficcava le mani nelle mutandine, e le faceva cose per cui poi Giulietta si vergognava moltissimo, come fosse stata colpa sua.
“Adesso mi devi sposare per forza”, le diceva Tebaldo dopo aver fatto i comodi suoi, “perché non sei più illibata, e se non ti piglio io non ti piglia nessuno.”
E Giulietta ci credeva. Quando Giulietta aveva tredici anni esisteva una cosa che si chiamava “matrimonio riparatore”, che voleva dire che se un ragazzo stuprava una ragazza poi poteva farla franca e non farsi neppure un giorno di galera se sposava la ragazza stuprata. E la ragazza accettava quasi sempre, perché se in giro si fosse venuto a sapere che non era più vergine poi davvero non se la sarebbe più sposata nessuno.
Giulietta questo lo sapeva perché così era nato suo fratello maggiore, Aristide, che aveva tre anni più di lei. All'epoca il papà e la mamma erano solo amici. Lui voleva sposarla ma lei gli aveva detto di no, perché era innamorata di un altro. Perciò il papà l'aveva violentata e l'aveva messa incinta, così lei aveva dovuto sposarlo per forza altrimenti sarebbe rimasta “svergognata” per sempre.
Questo Giulietta lo sapeva, per questo non diceva a nessuno di quel che le faceva Tebaldo: aveva paura che poi l'avrebbero obbligata a sposarlo.
Quel che Giulietta non sapeva, e che scoprì solo molti anni dopo, era che tra lei e Tebaldo non c'erano mai stati rapporti completi, e che quindi lei era “tecnicamente” ancora vergine. Non lo sapeva, perché all'epoca nessuno parlava di educazione sessuale: era un argomento tabù e i ragazzini per scoprire qualcosa si arrangiavano come potevano, spesso credendo a dicerie veramente campate in aria.
Comunque poi Tebaldo non l'aveva più sposato, perché si erano persi di vista, per fortuna. Le ultime notizie che aveva avuto era che Tebaldo si era dato alla politica ed era un fervente sostenitore delle famiglie tradizionali. Lui stesso si era sposato almeno tre volte, tanto ci credeva. Probabilmente non si ricordava più dell'estate infernale che aveva fatto passare a Giulietta. O, se la ricordava, la liquidava sicuramente con un “ragazzate!”.
Tebaldo era scomparso dalla vita di Giulietta assieme agli zii Paride e Giuditta, che si erano allontanati da loro quando la mamma si era suicidata, tre anni dopo quell'estate.
La mamma si era suicidata perché era ancora innamorata della sua vecchia fiamma (a dirla tutta, si era suicidata insieme a lui) e non riusciva più a sopportare quel matrimonio forzato.
Peccato, perché se avesse pazientato ancora un anno avrebbe potuto divorziare da papà e sposare il suo bello. Ma lei questa pazienza non l'aveva avuta, o forse era convinta che la legge sul divorzio non sarebbe passata.
Lei e il suo bello si erano gettati con la macchina giù da un dirupo, e anche se tutti ufficialmente parlavano di incidente, in casa si sapeva benissimo quale fosse la verità.
Giulietta un po' l'ammirava per il coraggio e la forza della sua passione, un po' non poteva perdonarla perché suicidandosi la mamma le aveva rovinato la vita.
Ancora se lo ricordava quel giorno di agosto, un mese dopo la morte della mamma, quando raggiunse il papà in cucina con l'elenco dei libri di scuola da comprare per l'anno scolastico che stava per cominciare. Giulietta frequentava il liceo classico e aveva ottimi voti in tutte le materie. Non vedeva l'ora di tornare tra i banchi, dai suoi amici e dai libri che amava.
Papà pareva imbarazzato, non ebbe il coraggio di guardarla in faccia.
Prese l'elenco, gli diede una scorsa distratta, poi lo lasciò cadere sul tavolo.
“È inutile, perché tu a scuola non ci torni”, sospirò.
Giulietta lo guardò, attonita.
Era uno scherzo, sicuramente.
O no?
“Che vuol dire?”, domandò Giulietta, incredula, “In che senso non ci torno?”
“Giulietta”, papà era in difficoltà, “Giulietta, non rendere tutto più difficile. Pensavo fosse ovvio, credevo che l'avessi già capito. Ora che la mamma non c'è più... tu sei l'unica donna rimasta in famiglia. Insomma, qualcuno deve pur prendersi cura della casa.”
“C'è la tata”, rispose Giulietta, “Non basta lei?”
La tata era la donna che si era presa cura di tutti i piccoli Capuleti, da Aristide in poi.
“Ma la tata è anziana, ormai”, protestò papà, “E poi non basta. Ci vuole una donna che prenda in mano la situazione, che prepari da mangiare, che pulisca, che badi ai piccoli...”, era una famiglia numerosa, la loro: dopo Aristide e Giulietta c'erano anche Anselmo, che aveva tredici anni, i gemelli Giacomo e Lucio, che avevano dieci anni ed erano pestiferi, Francesco, di sei anni, che quell'anno doveva cominciare le elementari, e il piccolo Luca, che aveva appena un anno e non andava neppure ancora all'asilo, “...insomma, Giulietta, tu sei la più grande, devi assumerti le tue responsabilità...”
“Non è vero, non sono io la più grande. Aristide è più grande di me. Perché non può pensarci lui, alla famiglia?”
“Ma Aristide deve diplomarsi, e poi laurearsi... ha già perso un anno.”
“Anch'io devo diplomarmi e laurearmi, e non ho perso nessun anno.”
Era vero. Aristide non amava studiare e non andava bene a scuola. Prima della bocciatura era sempre stato promosso solo “a calci”, come si diceva, e solo perché il preside era amico di papà e aveva avuto un occhio di riguardo.
“Ma perché non vuoi capire?”, sospirò papà, sempre più esasperato, “Aristide è un maschio. Non ti aspetterai mica che si metta a spignattare per tutti, a spolverare, a fare la spesa, a cambiare pannolini o a badare ai pargoli, vero? Quella è cosa da donne. È una cosa che solo tu puoi fare.”
“Ma...”, balbettò Giulietta, “Ma... non è giusto... perché la sua carriera dovrebbe essere più importante della mia?”
“Giulietta”, papà alzò la testa e la guardò negli occhi, “Aristide un maschio.”
Non ebbe bisogno di dire altro, Giulietta aveva capito.
Aveva lasciato la scuola e da allora si era presa cura della famiglia, del papà e dei fratelli, e poi anche di cugini e nipoti, e aveva abbandonato completamente ogni velleità. Niente più laurea, niente più viaggi, niente più libri da scrivere e avventure da vivere. Certo, non aveva smesso di leggere e di studiare per conto suo. Ma diciamolo: non è proprio la stessa cosa.
Ora la famiglia Capuleti, in tutte le sue ramificazioni, dipendeva da lei. Una certa importanza ce l'aveva, no? Non quel che aveva sognato da piccola, ma meglio di niente.
Dieci anni prima Jessica, figlia di Aristide, le aveva detto quella cosa.
Giulietta, che le faceva da baby-sitter, l'aveva accompagnata a giocare ai giardinetti e la bimba, all'epoca quattrenne, l'aveva guardata e aveva detto: “Zia, ma perché le mie amichette le loro zie le chiamano nonna e io ti chiamo zia?”
Giulietta si era guardata attorno e si era resa conto che c'erano nonne che parevano più giovani di lei. Si era asciata andare, aveva ammesso. Si era lasciata prendere a tal punto dalla vita dei familiari che aveva dimenticato la propria.
Per questo aveva deciso di tirare un po' su la testa, e aveva cominciato ad andare in piscina, a imparare l'inglese, e si era anche trovata un lavoretto part-time, per mettere da parte un po' di soldi da spendere per se stessa. Era stato quasi uno scandalo, perché nessuno più si aspettava che Zia Giulietta (all'epoca non era ancora Vecchia) potesse avere desideri propri. Desideri che non coinvolgessero la famiglia, vale a dire.

Giulietta si guardò allo specchio di nuovo, sistemò il mantello da vampira e si disse pronta e soddisfatta.
“Jessica”, chiamò bussando alla porta del bagno, “Hai finito? Dai, che facciamo tardi.”
Jessica uscì, anche lei vestita da vampira. Gonna di tulle nera, top di raso nero, giubbino nero con le borchie, ombretto viola cupo, rossetto e smalto neri. Sì, ma lei non era così solo per il ballo in maschera, lei si vestiva così (o quasi così) sempre, perché da due mesi era diventata dark.
“Eccomi, zietta, sono pronta”, disse, “Uau! Sei fikissima! Stasera spakki di brutto, garantito.”
Giulietta sospirò, poi le due uscirono di casa.



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